Un racconto per amare di più la natura e meno il cellulare: "Il Bosco Incantato di Pixel" (creato da Copilot microsoft)

**Il Bosco Incantato di Pixel** C'era una volta un bosco incantato chiamato Pixel, dove gli alberi sussurravano storie antiche e i fiori danzavano al ritmo del vento. In questo bosco magico, viveva un piccolo folletto di nome Luce, che aveva il potere di far brillare le cose con un semplice tocco. Un giorno, Luce notò che i bambini del villaggio vicino passavano tutto il loro tempo a fissare dei piccoli rettangoli luminosi, chiamati cellulari, dimenticandosi di giocare all'aria aperta. Preoccupato, Luce decise di usare la sua magia per mostrare ai bambini la bellezza della natura. Con un pizzico di polvere di stelle, Luce fece sì che ogni cellulare mostrasse immagini del bosco incantato. Gli alberi sembravano così reali che i bambini sentirono il profumo del muschio e il canto degli uccellini. Incantati, misero da parte i cellulari e corsero verso il bosco. Arrivati nel bosco, i bambini scoprirono un mondo di meraviglie. Inseguirono farfalle arcobaleno, costruirono castelli di

Pinocchio di Carlo Collodi, capitolo XXXI: "Dopo cinque mesi di cuccagna, Pinocchio, con sua grande meraviglia, sente spuntarsi un bel paio d'orecchie asinine e diventa un ciuchino, con la coda e tutto".

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XXXI
Dopo cinque mesi di cuccagna,
Pinocchio, con sua grande
meraviglia, sente spuntarsi un
bel paio d'orecchie asinine e
diventa un ciuchino, con la coda e tutto.

Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il più piccolo

rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa e
di cenci.
Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima
grandezza, ma di diverso pelame.
Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso
pepe e sale, e altri rigati a grandi strisce gialle e turchine.
Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutti le altre bestie da tiro o da soma, avevano ai
piedi degli stivali da uomo di vacchetta bianca.
E il conduttore del carro?...
Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso
come una palla di burro, con un visino di melarosa,
una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa.
Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano inna-
morati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di Paese dei Balocchi.
Difatti il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli
otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri,
come tante acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano
pigiati, non potevano quasi respirare: ma nessuno diceva
ohi!, nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che
fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano né libri, né scuole, né maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non sentivano né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno.
Appena che il carro si fu fermato, l’omino si volse a
Lucignolo e con mille smorfie e mille manierine, gli domandò
sorridendo:
– Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu in quel
fortunato paese?
– Sicuro che ci voglio venire.
– Ma ti avverto, carino mio, che nel carro non c’è più
posto. Come vedi, è tutto pieno!...
– Pazienza! – replicò Lucignolo, – se non c’è posto
dentro, io mi adatterò a star seduto sulle stanghe del carro.
E spiccato un salto, montò a cavalcioni sulle stanghe.
– E tu, amor mio?... – disse l’omino volgendosi tutto
complimentoso a Pinocchio. – Che intendi fare? Vieni con
noi, o rimani?...
– Io rimango, – rispose Pinocchio. – Io voglio tornarmene
a casa mia: voglio studiare e voglio farmi onore alla
scuola, come fanno tutti i ragazzi perbene.
– Buon pro ti faccia!
– Pinocchio! – disse allora Lucignolo. – Dai retta a me:
vieni via con noi e staremo allegri.
– No, no, no!
– Vieni via con noi e staremo allegri, – gridarono altre
quattro voci di dentro al carro.
– Vieni via con noi e staremo allegri, – urlarono tutte
insieme un centinaio di voci di dentro al carro.
– E se vengo con voi, che cosa dirà la mia buona Fata?
– disse il burattino che cominciava a intenerirsi e a ciurlar
nel manico.
– Non ti fasciare il capo con tante melanconie. Pensa
che andiamo in un paese dove saremo padroni di fare il
chiasso dalla mattina alla sera!
Pinocchio non rispose: ma fece un sospiro: poi fece un
altro sospiro: poi un terzo sospiro; finalmente disse:
– Fatemi un po’ di posto: voglio venire anch’io!...
– I posti son tutti pieni, – replicò l’omino, – ma per
mostrarti quanto sei gradito, posso cederti il mio posto a
cassetta...
– E voi?...
– E io farò la strada a piedi.
– No, davvero, che non lo permetto. Preferisco piuttosto
di salire in groppa a qualcuno di questi ciuchini! – gridò
Pinocchio.
Detto fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della prima
pariglia e fece l’atto di volerlo cavalcare: ma la bestiola,
voltandosi a secco, gli dette una gran musata nello stoma-
co e lo gettò a gambe all’aria.
Figuratevi la risatona impertinente e sgangherata di tutti
quei ragazzi presenti alla scena.
Ma l’omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza
al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio, gli
staccò con un morso la metà dell’orecchio destro.
Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto infuriato,
schizzò con un salto sulla groppa di quel povero animale.
E il salto fu così bello, che i ragazzi, smesso di ridere, cominciarono a urlare: «Viva Pinocchio!» e a fare una smanacciata di applausi, che non finivano più.
Quand’ecco che all’improvviso il ciuchino alzò tutt’e
due le gambe di dietro, e dando una fortissima sgropponata,
scaraventò il povero burattino in mezzo alla strada sopra
un monte di ghiaia.
Allora grandi risate daccapo: ma l’omino, invece di ridere,
si sentì preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello,
che, con un bacio, gli portò via di netto la metà di
quell’altro orecchio. Poi disse al burattino:
– Rimonta pure a cavallo e non aver paura. Quel ciuchino
aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto
due paroline negli orecchi e spero di averlo reso mansueto
e ragionevole.
Pinocchio montò: e il carro cominciò a muoversi: ma
nel tempo che i ciuchini galoppavano e che il carro correva
sui ciotoli della via maestra, gli parve al burattino di
sentire una voce sommessa e appena intelligibile, che gli
disse:
– Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne
pentirai!
Pinocchio, quasi impaurito, guardò di qua e di là, per
conoscere da qual parte venissero queste parole; ma non
vide nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come
un ghiro e l’omino seduto a cassetta, canterellava fra i denti:
Tutti la notte dormono
E io non dormo mai...
Fatto un altro mezzo chilometro, Pinocchio sentì la solita
vocina fioca che gli disse:
– Tienlo a mente, grullerello! I ragazzi che smettono di
studiare e voltano le spalle ai libri, alle scuole e ai maestri,
per darsi interamente ai balocchi e ai divertimenti, non
possono far altro che una fine disgraziata!... Io lo so per
prova!... E te lo posso dire! Verrà un giorno che piangerai
anche tu, come oggi piango io... ma allora sarà tardi!...
A queste parole bisbigliate sommessamente, il burattino,
spaventato più che mai, saltò giù dalla groppa della cavalcatura e andò a prendere il suo ciuchino per il muso.
E immaginatevi come restò, quando s’accorse che il
suo ciuchino piangeva... e piangeva proprio come un ragazzo!
– Ehi, signor omino, – gridò allora Pinocchio al padrone
del carro, – sapete che cosa c’è di nuovo? Questo ciuchino
piange.
– Lascialo piangere: riderà quando sarà sposo.
– Ma che forse gli avete insegnato anche a parlare ?
– No: ha imparato da sé a borbottare qualche parola,
essendo stato tre anni in una compagnia di cani ammaestrati.
– Povera bestia!...
– Via, via, – disse l’omino, – non perdiamo il nostro
tempo a veder piangere un ciuco. Rimonta a cavallo, e andiamo: la notte è fresca e la strada è lunga.
Pinocchio obbedì senza rifiatare. Il carro riprese la sua
corsa: e la mattina, sul far dell’alba, arrivarono felicemente
nel Paese dei Balocchi.
Questo paese non somigliava a nessun altro paese del
mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi.
I più vecchi avevano quattordici anni: i più giovani ne avevano otto appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli dappertutto.
Chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi
andava in velocipede, chi sopra a un cavallino di legno;
questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano;
altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi
recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva
a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria;
chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale
coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta; chi rideva,
chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava,
chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo; insomma
un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano
indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi
per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano
teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e
su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone
delle bellissime cose come queste: Viva i balocci (invece di
balocchi): non voglamo più schole (invece di non vogliamo più
scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri
fiori consimili.
Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano
fatto il viaggio coll’omino, appena ebbero messo il piede
dentro la città, si ficcarono subito in mezzo alla gran
baraonda, e in pochi minuti, come è facile immaginarselo,
diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento
di loro?
In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti,
le ore, i giorni, le settimane, passavano come tanti baleni.
– Oh! che bella vita! – diceva Pinocchio tutte le volte
che per caso s’imbatteva in Lucignolo.
– Vedi, dunque, se avevo ragione?... – ripigliava quest’ultimo.
– E dire che tu non volevi partire! E pensare che
t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata, per
perdere il tempo a studiare!.... Se oggi ti sei liberato dalla
noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli,
alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i veri amici
che sappiano rendere di questi grandi favori.
– È vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente
contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece,
sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre:
«Non praticare quella birba di Lucignolo perché Lucignolo
è un cattivo compagno e non può consigliarti altro che a
far del male!...».
– Povero maestro! – replicò l’altro tentennando il capo.
– Lo so purtroppo che mi aveva a noia e che si divertiva
sempre a calunniarmi, ma io sono generoso e gli perdono!
– Anima grande! – disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un bacio in mezzo agli occhi.
Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella
cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza
mai vedere in faccia né un libro, né una scuola, quando
una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol
dire, una gran brutta sorpresa che lo messe proprio di malumore.

Comprensione del testo

  1. Perché Pinocchio decide di partire per il Paese dei Balocchi?
  2. Chi lo convince? In che modo?
  3. Chi lo mette in guardia?
  4. Come si comporta l'Omino che guidava il carro?
  5. Come trascorsero i giorni nel Paese dei Balocchi?
  6. Dopo cinque mesi di cuccagna, cosa accade a Pinocchio?
Interpretazione del testo
  1. Pinocchio vorrebbe rimanere a casa con Geppetto e studiare, chi lo convince a partire?
  2. Ti sembra sincero Lucignolo?
  3. L'Omino come si comporta?
  4. Chi aveva messo in guardia Pinocchio?
  5. Perché il ciuchino piangeva?
  6. Qual è lo stato d'animo di Pinocchio?

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